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Nel weekend ho visto due film che bisognerebbe far studiare o usare come libri di testo per capire quel genere particolare che è il “Rockumentary”. Genere affermato, persino troppo, che negli ultimi tempi ha avuto un boom di produzioni e visibilità. Ma oggetto difficilissimo da maneggiare, anche per i registi più affermati, con il rischio concreto e incombente che da documentario si trasformi in un’agiografia noiosa.
Il primo è “Living in the material world”, ovvero George Harrison raccontato da Martin Scorsese. La cui visione ha risvegliato dall’inconscio la mia anima cattedratica, che ogni tanto prende il sopravvento e rischia di farmi partire in analisi pallose quanto i film/dischi che vorrei spiegare. E non è un bene che un film faccia quest’effetto.
Ora: Scorsese è un regista incredibile (è uno dei miei registi preferiti, per la cronaca). Ha fatto grandi cose con la musica, che frequenta da tempi immemorabili. Sua è la regia di “The last waltz”, forse il più bel rock-film di sempre. Recentemente, anche il film-concerto dedicato agli Stones era un gioiello. Ma “Living in the material world” è una delusione su tutta la linea. Detto in termini accademici: una palla gigantesca, fatto con la mano sinistra e senza cuore. Una messa in fila diligente di materiali d’archivio, nulla più, con errori clamorosi (come non mettere neanche i sottopancia a certi personaggi intervistati). E nonostante sia stato realizzato dalla HBO, che in materia di produzioni TV attualmente non ha praticamente rivali.
Lo ammetto, non sono riuscito a vederlo tutto, e me ne vergognavo anche un po’. Mi sono fatto molti scrupoli a scrivere queste righe, finché non ho letto la recensione che avevo commissionato a Franco Zanetti – che invece se l’è visto da capo a coda. Leggetela, e capirete perché il film è una delusione.
Poi, con un po’ di ritardo, ho finalmente visto “PJ Twenty”, il documentario diretto da Cameron Crowe sui Pearl Jam. Uno che conosce bene la band e la loro storia, avendola vissuta in prima persona; uno che, a differenza di Scorsese, su questo lavoro ci ha messo la faccia – anche un po’ troppo, visto che racconta tutto in prima persona come voce narrante.
Ma soprattutto Crow ci ha messo il cuore e la tecnica: il racconto è perfetto, avvincente, completo, con soluzioni di regia che ti tengono incollato allo schermo. La storia è completa: c’è tutto quello che ci deve essere ed è affascinante a tutti i livelli, sia che la conosciate già, sia che dobbiate ancora scoprirla. Perché Crowe è riuscito ad andare oltre l’agiografia e a spiergare perché la parabola di questa band vale molto di più della storia per i fan. E’ uno spaccato di costume americano.
http://www.youtube.com/watch?v=_JMYojneFQo
Ecco: se volete capire cos’è il rockumentary, guardatevi in fila questi due film. Poi correte a rivedervi “This is Spinal Tap”. E se non l’avete mai visto, vergognatevi un po’ e rimediate in fretta. Non ripresentatevi al prossimo appello d’esame prima di averlo visto, eh.
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@Discographies è un misterioso personaggio che si nasconde dietro un account twitter e condensa in 140 battute le discografie degli artisti. Da qualche tempo agisce anche sul Daily, il quotidiano solo per iPad, dove sezione gli artisti nelle loro componenti matematiche. Ecco un fantastico uno-due su Bjork, che vale più di qualsiasi recensione.
La discografia di Bjork in un tweet:
Bjork: 1-3 The ones people liked. 4-6 The ones people pretended to like. 7 An app to kill time with while waiting for an Angry Birds update.
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"Part lies, part heart, part truth, part garbage"
(R.E.M.)
“Fiction, poetry, music, really deep serious sex, and, in various ways, religion — these are the places (for me) where loneliness is countenanced, stared down, transfigured, treated.”
(David Foster Wallace)