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L’altra mattina mi arriva una mail da Athens, Georgia.
Il biglietto dei R.E.M. a Milano, 1995
“20 anni fa, oggi, i R.E.M. suonavano a Milano. Ti ricordi la cover di ‘Wicked game’ che suonarono quella sera?”, mi scrive Bertis, il loro manager. Ha visto la R.E.M. Timeline, ha visto la scaletta del 25 febbraio 1995 a Milano.
“Cavolo, sì. C’ero a tutte e due le sere. Che concerto”, rispondo.
“Ti va di raccontarlo? Te lo pubblichiamo sul sito della band” (Seguono brividi, nostalgia, mancanza ed altre emozioni assortite). Alla fine ho scritto questo pezzo di getto, che hanno postato su Facebook e sul sito ufficiale della band.
Nostalgia a pacchi, a ricordare quel concerto, quei giorni. E vedere il mio nome associato a quello della mia band preferita mi commuove ogni volta. Ok, la smetto di bullarmi. (Gianni SiBulla)
Nel maggio del 2001 i R.E.M. vennero in Italia a presentare “Reveal”. Portai il loro manager, con cui ero in buon rapporti da qualche tempo, a fare una lezione in Università. Mentre stavamo andando in taxi a lezione mi parlò del fatto che di lì a poco avrebbero registrato un nuovo “Unplugged” per MTV e sarebbero stati l’unica band a farlo per due volte. “Una cosa storica”, mi disse.
Misi la faccia di tolla e gli chiesi un biglietto.
Me lo fece avere.
Quel concerto esce come album ufficiale, assieme all’Unplugged registrato 10 anni prima, nel ’91. Ma l’Unplugged del 2001 io me lo ricordo bene, perché presi un aereo e volai a New York vederlo.
Ricordo che andai a ritirare l’invito in un albergo sulla Fifth Avenue, dove stava la band. Ricordo che la prima cosa che feci fu di andare a farne una fotocopia a colori, nel timore che me lo ritirassero all’entrata e rimanessi senza souvenir – (ho sempre avuto un’ossessione per i biglietti dei concerti) (me lo ritirarono).
Ricordo la fila su Broadway per entrare negli studi di Times Square.
Mi ricordo che in coda mi misi a parlare – in inglese – con un signore in carne, pochi capelli rossicci raccolti in una coda.
”Sei californiano?”, mi chiese dopo un po’. “No, sono italiano”. “E allora parla in italiano, cazzo!”, mi rispose nella mia lingua.
(Mi sono bullato per anni di essere stato scambiato per un californiano, e un po’ lo sto facendo ancora ora).
Mi raccontò di essere amico di Stipe, e che faceva il cuoco, aveva dei ristoranti. (Ricordo che qualche anno dopo, vedendo un programma TV dal titolo Iconoclasts girato assieme a Stipe, scoprì che quel signore era Mario Batali, mega star degli chef italo-americani).
Ricordo che eravamo in meno di 100 persone in quello studio, che a lato aveva una vetrata con vista mozzafiato su Times Square. Non ho mai visto un concerto dei R.E.M. con così poca gente (e ne ho visti più di 20) (i miei preferiti, in ordine: Dublino 2007, Milano 1989, New York Unplugged 2001)..
Ricordo che c’era Gwyneth Paltrow tra il pubblico. O meglio, mi ricordo che lo lessi dopo, perché ero talmente emozionato di essere lì che manco me ne accorsi.
Ricordo che Stipe era molto raffreddato, ma che la sua voce era stupenda. In studio c’erano dei monitor che rimandavano in loop le immagini dell’Unplugged del ’91. Mi ricordo che Stipe era molto, molto imbarazzato a rivedersi mentre cantava, 10 anni prima.
Ricordo che Buck e Mills giocavano a cambiare in continuazione posizione e strumenti con Ken Stringfellow, Scott McCaughey e Joey Waronker, i tre “aggiunti” di quel perido.
Ricordo che mi prese un coccolone quando nella mia canzone preferita, “Country feedback”, infilarono alcuni versi di un’altra tra le mie canzone preferite, “Like a rolling stone”. “Ma stanno davvero cantando Dylan?”, mi chiesi.
Ricordo che mi prese un coccolone ancora più grosso quando lessi su Rolling Stone che nel pomeriggio l’avevano suonata per intero alle prove, ma avevano deciso di non farla, optando per quei due versi messi lì in mezzo alla loro canzone più bella. Sentire la versione completa di “Like a rolling stone” di quel pezzo è il mio sacro graal del R.E.M. – ma dubito che salterà mai fuori.
Ricordo il momento più bello del concerto: quando suonarono solo Stipe, Buck e Mills, senza gli tre membri aggiunti (Bill Berry se n’era già andato da qualche anno). “So. Central Rain”, “The One I Love”, “Losing my religion”: una sequenza killer. Ricordo di avere avuto la sensazione che si fossero buttati alle spalle solo in quel momento l’uscita di Bill dalla band, avvenuta 3 anni prima.
Ricordo la fine del concerto, una stupenda versione acustica di “The great beyond” finita in festa con un pezzo di “La bamba”: non l’hanno mai più suonata così e l’ hanno lasciata fuori dal CD che esce oggi. Ricordo che un sacco di canzoni le fecero due volte per esigenze televisive – e che fui ben contento di riascoltarle.
Ricordo che qualche anima buona fece circolare tra i fan una registrazione da soundboard di tutto quel concerto, e che da allora l’ho ascoltata non so quante volte.
Mi emoziona ogni volta risentire quel concerto, mi emoziona ancora di più adesso che è uscita una versione ufficiale che suona ancora meglio.
(ps: qua c’è la recensione “seria” del CD, per come posso essere serio io che parlo dei R.E.M.) (qua c’è quello che scrissi al tempo – a rileggerlo oggi mi sembra un po’ freddino) (con il tempo sono inevitabilmente diventato più nostalgico e più fan…)
Commenti disabilitati su Cose che ricordo dell’Unplugged dei R.E.M. (storia personale di uno dei concerti più belli che ho visto)
Il tempo è passato per tutti: Mike Scott nasconde i capelli bianchi sotto un cappello a tesa larga e il viso dietro un paio di spessi occhiali (li leverà solo a fine concerto, rivelando una somiglianza impressionante con Steven Tyler). Steve Wickham nasconde un ventre prominente sotto un cappotto – la barba è bianca, i capelli radi. L’unico vezzo di Anto Thistlethwaite sono le scarpe di coccodrillo – per il resto sembra appena uscito da un pub, nascondendo la testa (presumibilmente pelata) sotto un cappellino da baseball. Io i capelli li ho ancora, ma sono abbondantemente venati di bianco, così come la mia barba, che alla fine degli anni ’80 non avevo. Chi più, chi meno, nella sala quasi piena dell’Auditorium di Milano. mostra quegli stessi segni.
Però quando i membri della formazione di fine anni’ 80 del Waterboys suonano, il tempo torna indietro per magia, come se 24 anni anni non fossero passati, come se “Fisherman’s blues” fosse appena uscito.
Scott entra sul palco da solo, e attacca con l’acustica “Strange boat”, da quel disco. Poco dopo viene raggiunto dal violinista Wickham, che sembra uscito da un quadro di Chagall, da Thistlethwaite, che si alternerà per tutta la sera tra mandolini e sax. Poi arrivano Trevor Hutchinson (anche lui membro originale della band di quel periodo) e il batterista Ralph Salmins, unica entrata recente. E subito si capisce che il fuoco del folk-rock brucia ancora potente, che Scott è ancora un band leader come pochi, che sa guidare il suo gruppo tra gighe, rock, ballate.
Il tour si intitola “Fisherman’s blues revisited”, sullo sfondo troneggia un’immagine di una villa irlandese ricoperta d’edera, quella Spiddal House dove la band registrò buona parte delle canzoni, e poi sfondo della copertina. Ma i Waterboys non suonano per intero l’album, come va di moda ultimamente – anzi lasciano fuori dalla scaletta pezzi centrali del disco come “And a bang on the ear” e “World party”. Però pescano a piene mani da quel periodo, mettendo in scaletta outtakes delle lunghe sessioni dell’album, molte delle quali appena pubblicate nel “Fisherman’s box” e eseguite dal vivo quasi per la prima volta. C’è spazio per qualche brano del periodo precedente (quella “A girl called Johnny” che Scott dedicò a Patti Smith, suonata al piano elettrico, così come “Bang the drum” e “The whole of the moon”), per qualche brano dal sapore più blues. L’unico momento veramente rock è “We will not be lovers” (unica canzone eseguita con una chitarra elettrica), a cui si accompagnano diverse cover, sempre parte del repertorio di quel periodo, che tracciano alla perfezione il paesaggio musicale di riferimento dei Waterboys: “Girl from the north country” di Dylan, “I’m so lonesome I could cry” di Hank Williams e soprattutto una chilometrica ed intensa “Sweet thing” di Van Morrison, cantata con la citazione di “Blackbird”, come nell’album.
Ecco, intensità: quello che i Waterboys riescono ad esprimere, oggi come in quel periodo, è una carica che band più giovani e più “cool” si sognano. Alla fine, questo concerto e il “Fisherman’s box” sono un’operazione nostalgica e retromaniaca. Ma va benissimo così: il disco fu un capolavoro; il tempo avrà pure lasciato i suoi segni sulle persone, ma anche la musica. E quel segno non fa male. Anzi fa bene, soprattutto quando lo si rivive dal vivo così.
SETLIST:
Strange boat
Higher bound
A Girl called Johhny
Girl from north country
Stranger to me
When ye go away
Tenderfootin’
When will we be married
Come live with me
Raggle taggle gypsy
We will not be lovers
I’m so lonesome I could cry
Blues for your baby
Bang the drum
Mad as the mist and snow
Sweet thing
Fisherman’s Blues
Bis:
Steve’s fashionable gig
Whole of the moon
On my way to heaven
Saints and angels
Commenti disabilitati su Il segno lasciato dal tempo (e dalla musica): i Waterboys dal vivo a Milano
“Dream river” di Bill Callahan è uno dei miei dischi preferiti del 2013 . “Americana” allo stato puro, grandi canzoni, una voce e una scrittura da manuale e, a questo giro, arrangiamenti tra folk e jazz.
Meglio ancora di quel disco, c’è questo concerto, registrato dalla radio pubblica americana, la NPR in una sinagoga di Washington. Luogo suggestivo, un suono che è ancora più bello del disco, forse un po’ più spoglio, ma ipnotico e meraviglioso. Al minuto 66, parte “Please Send Me Someone to Love”, una cover di una canzone degli anni ’50, di Percy Mayfield. 13 minuti di pura emozione, una delle cose più intense che ho ascoltato negli ultimi mesi.
Il concerto si può solo ascoltare in streaming, sul sito o sulle app dell’emittente. Immagino che prima o poi lo metteranno in download come podcast, come fanno quasi sempre quelli della NPR (sempre siano lodati). Nel frattempo, ho caricato solo quella canzone su Soundcloud, sotto c’è l’originale: fatevi un regalo, prendetevi un quarto d’ora, un buon paio di cuffie e ascoltatela.
E’ successo così. Dylan fa tre concerti di fila a Milano. Fa sempre la stessa scaletta, la stessa di tutti i concerti precedenti di questa parte del tour. Cambia solo una canzone. Che canzone, vabbé: “Desolation Row”, “Visions of Johanna” e “Hard rain”. Però tutto il resto rimane uguale. I fan puri e duri vanno tutte e tre le sere.
Poi Dylan suona a Roma. I fan milanesi non ci vanno. Tanto fa sempre le stesse canzoni, quelle che ci ha fatto per tre sere, pensano.
E lui, ieri sera, fa la scaletta che vedete sotto. Nessuna rarità assoluta, nota il dylanologo Paolo Vites. Ma una sequenza da brivido. Ieri sera su Facebook leggere le reazioni di chi lo aveva visto a Milano… E’ un genio – trova modi sempre nuovi per incazzare i suoi fan.
C’era anche la più grande canzone di tutti i tempi, cantata bene.
1. Leopard-Skin Pill-Box Hat
2. Don’t Think Twice, It’s All Right
3. Watching The River Flow
4. Blind Willie McTell
5. Honest With Me
6. Make You Feel My Love
7. Tweedle Dee & Tweedle Dum
8. Queen Jane Approximately
9. Highway 61 Revisited
(Intermission)
10. Just Like Tom Thumb’s Blues
11. Ain’t Talkin’
12. Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine)
13. Boots Of Spanish Leather
14. The Levee’s Gonna Break
15. Every Grain Of Sand
16. Like A Rolling Stone
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"Part lies, part heart, part truth, part garbage"
(R.E.M.)
“Fiction, poetry, music, really deep serious sex, and, in various ways, religion — these are the places (for me) where loneliness is countenanced, stared down, transfigured, treated.”
(David Foster Wallace)