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Ecco i materiali della seconda lezione del corso di Storia sociale della musica pop e rock, oggi in Bocconi: link, audio e video di cui si è parlato in aula.
L’immaginario musicale e culturale degli anni ’60
La motown (e la musica black negli anni ’60)
i Beatles
Bob Dylan
Jimi Hendrix e Woodstock
La coda lunga degli anni ’60: California e dintorni
A memoria, sono anni che non vedo uscire storie ambiziose della musica contemporanea: il rock ed il pop sono fenomeni sempre più frammentati, sempre più difficili da riunire e in un unico volume. Meglio allora raccontare le singole storie, piuttosto che una grande narrazione onnicomprensiva.
Accanto alle care vecchie monografie/biografie di e sugli artisti, accanto alla saggistica che ha tentato di raccontare i cambiamenti della musica, negli ultimi anni hanno preso piede due filoni: raccontare le canzoni (l’infinita variazione sul tema della playlist) o i singoli album. E, appunto, le storie minime del rock: non gli artisti, ma personaggi apparentemente laterali, periodi precisi, scene e filoni ristretti.
E’ un filone di racconto della musica interessantissimo: negli ultimi mesi ha prodotto diversi libri che vale la pena consigliare e soprattutto leggere. Libri che difficilmente verranno pubblicati in Italia, ma da recuperare comunque se si vuole leggere storie di rock ‘n’ roll raccontate come si deve, scritte attingendo a fonti di prima mano.
Il primo è “The Last Sultan”, di Robert Greenfield (si trova in digitale su iTunes Book Store e su Amazon, in inglese). L’ultimo sultano è Ahmet Ertegun: figlio di un diplomatico turco talmente potente da bloccare la produzione hollywoodiana di un film sul genocidio degli armeni. Ahmet crebbe assieme al fratello Neshui in un ambiente ultra-aristocratico, ma entrambi avevano una passione per la musica che li portò ad allontanarsi dalle proprie origini. Ertegun – che conservò il suo lignaggio soprattutto nel modo di presentarsi, tanto da venire considerato uno degli uomini più eleganti d’America – divenne il fondatore e l’anima della Atlantic Records, etichetta che ha attraversato più di mezzo secolo di storia della musica, dal jazz e dal blues, al pop e al rock. La sua prima grande scoperta fu Ray Charles, negli anni ’70 mise sotto contratto i Rolling Stones e lanciò i Led Zeppelin. Ertegun era una rockstar di suo, un rappresentate perfetto del romanticismo dell’industria musicale degli esordi, basata più sul talento e sul fiuto che sull’imprenditorialità pura. Tanto per dire: è morto nel 2006 a seguito di una caduta nel backstage di un concerto degli Stones (che stavano registrando “Shine a light”, film diretto da Scorsese). E gli Zeppelin, in suo onore, si sono riuniti per il famoso e unico concerto del 2007. Greenfield racconta benissimo questa storia, con precisione maniacale delle fonti (interviste originali, rigorosamente citate in nota), ma mai senza appesantire il racconto, zeppo di imprendibili storie di rock ‘n’ roll.
Altro libro che è un vero e proprio concentrato di leggende è “Love goes to buildings on fire” di Will Hermes (sempre in inglese, si trova su Amazon). Il titolo è quello del primo singolo dei Talking Heads (“Love->Building on fire”), perché il libro racconta la New York del ’73-’77: un periodo e un luogo interessantissimo: ha visto nascere e crescere una generazione di icone, da Patti Smith a Bruce Springsteen, dai Television agli stessi Talking Heads, dal minimalismo di Philip Glass alla trasgressione di Lou Reed solista. Ma in quel luogo e in quel periodo si costruì soprattutto una reazione all’idealismo degli anni ’60, del flower power californiano che era terminato in una disillusione totale. A New York, in quegli anni, non ci fu solo il proto-punk, l’art rock a cui quel periodo (e lo storico CBGB’s) sono associati. Succedeva di tutto: dal jazz alla musica latina. Il libro è costruito in 5 macro capitoli, uno per ogni anno, che in realtà sono una serie di racconti intrecciati tra di loro, le storie dei personaggi dei luoghi, degli eventi.
Se poi si vuole capire come si è arrivati a quel periodo, un terzo libro è Fire and Rain, di David Browne (anche questo in inglese, e su Amazon) Una storia ancora più minima, quella di un solo anno, ma un anno cerniera tra due ere: il 1970, raccontato attraverso quattro dischi: “Let it be” dei Beatles, “Sweet baby James” di James Taylor, “Bridge over troubled water” di Simon & Garfunkel e “Deja vu” di CSN&Y. Un consiglio complementare: qualche tempo fa è uscito un particolare “cover album” dedicato a canzoni di quell’anno. Lo ha inciso Marc Cohn (“Walking in Memphis”, ricordate?) e si intitola “Listening booth”.
Nel weekend ho visto due film che bisognerebbe far studiare o usare come libri di testo per capire quel genere particolare che è il “Rockumentary”. Genere affermato, persino troppo, che negli ultimi tempi ha avuto un boom di produzioni e visibilità. Ma oggetto difficilissimo da maneggiare, anche per i registi più affermati, con il rischio concreto e incombente che da documentario si trasformi in un’agiografia noiosa.
Il primo è “Living in the material world”, ovvero George Harrison raccontato da Martin Scorsese. La cui visione ha risvegliato dall’inconscio la mia anima cattedratica, che ogni tanto prende il sopravvento e rischia di farmi partire in analisi pallose quanto i film/dischi che vorrei spiegare. E non è un bene che un film faccia quest’effetto.
Ora: Scorsese è un regista incredibile (è uno dei miei registi preferiti, per la cronaca). Ha fatto grandi cose con la musica, che frequenta da tempi immemorabili. Sua è la regia di “The last waltz”, forse il più bel rock-film di sempre. Recentemente, anche il film-concerto dedicato agli Stones era un gioiello. Ma “Living in the material world” è una delusione su tutta la linea. Detto in termini accademici: una palla gigantesca, fatto con la mano sinistra e senza cuore. Una messa in fila diligente di materiali d’archivio, nulla più, con errori clamorosi (come non mettere neanche i sottopancia a certi personaggi intervistati). E nonostante sia stato realizzato dalla HBO, che in materia di produzioni TV attualmente non ha praticamente rivali.
Lo ammetto, non sono riuscito a vederlo tutto, e me ne vergognavo anche un po’. Mi sono fatto molti scrupoli a scrivere queste righe, finché non ho letto la recensione che avevo commissionato a Franco Zanetti – che invece se l’è visto da capo a coda. Leggetela, e capirete perché il film è una delusione.
Poi, con un po’ di ritardo, ho finalmente visto “PJ Twenty”, il documentario diretto da Cameron Crowe sui Pearl Jam. Uno che conosce bene la band e la loro storia, avendola vissuta in prima persona; uno che, a differenza di Scorsese, su questo lavoro ci ha messo la faccia – anche un po’ troppo, visto che racconta tutto in prima persona come voce narrante.
Ma soprattutto Crow ci ha messo il cuore e la tecnica: il racconto è perfetto, avvincente, completo, con soluzioni di regia che ti tengono incollato allo schermo. La storia è completa: c’è tutto quello che ci deve essere ed è affascinante a tutti i livelli, sia che la conosciate già, sia che dobbiate ancora scoprirla. Perché Crowe è riuscito ad andare oltre l’agiografia e a spiergare perché la parabola di questa band vale molto di più della storia per i fan. E’ uno spaccato di costume americano.
http://www.youtube.com/watch?v=_JMYojneFQo
Ecco: se volete capire cos’è il rockumentary, guardatevi in fila questi due film. Poi correte a rivedervi “This is Spinal Tap”. E se non l’avete mai visto, vergognatevi un po’ e rimediate in fretta. Non ripresentatevi al prossimo appello d’esame prima di averlo visto, eh.
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"Part lies, part heart, part truth, part garbage"
(R.E.M.)
“Fiction, poetry, music, really deep serious sex, and, in various ways, religion — these are the places (for me) where loneliness is countenanced, stared down, transfigured, treated.”
(David Foster Wallace)